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lunedì 5 maggio 2014

Il calcio nel "pallone": una crisi nata nel lontano 2002 e mai risolta.



“Se questo è il calcio meglio chiudere”, “non si può essere ostaggio delle curve” e “lo Stato non deve piegarsi di fronte ad un centinaio di criminali”!

Tutto vero (o quasi), ma quanta ipocrisia.

Il calcio italiano sta attraversando uno dei periodi più bui della sua storia, iniziato intorno al 2002 con il fallimento di gloriose società, con controverse decisioni da parte delle Autorità competenti, con i successivi ripescaggi e con la nascita dell'offerta calcio per le pay-tv, che hanno di fatto creato una spaccatura profonda tra la serie A e le serie minori: le squadre della prima categoria hanno ricevuto benefici dalla vendita dei diritti, mentre le seconde sono state costrette a dividersi le briciole con un “prodotto calcio” che in provincia è divenuto in poco tempo meno appetibile e estremamente costoso (stadi, biglietti, ingaggi e oneri indiretti).

A questo si sono aggiunte le note vicende di “Calciopoli” e gli intrecci internazionali relativi al calcio-scommesse dalle serie minori – costrette a compensare i mancati introiti con illegali e poco etiche pratiche pseudo-calcistiche - fino al coinvolgimento di importanti club e di ex-calciatori, per concludere con la rinnovata visibilità richiesta ed ottenuta dalle tifoserie dopo gli episodi di Catania (la morte dell’ispettore Raciti), la vicenda della finta morte di un bimbo prima del derby Roma-Lazio, le maglie dei giocatori del Genoa consegnate alla curva e, in ultimo, la "trattativa" della finale di Coppa Italia a cui si è recentemente assistito.

Tutti episodi che hanno un elemento comune: la fragilità di chi gestisce direttamente o indirettamente l’industria calcistica.

In primis le società che per anni hanno concesso privilegi consentendo la creazione di mini aziende occulte capaci di gestire i biglietti per gli accessi negli stadi, le coreografie, le trasferte e il reimpiego dei ricavi nel commercio di droga e di attività di riciclaggio.

In secondo piano, la Federazione che ha finto cambiamenti ai vertici per poi mantenere uno ‘status quo’ che ha consentito il rafforzamento economico delle società a maggiore visibilità nazionale, tralasciando quegli aspetti sociali che nella maggior parte d’Europa sono garantiti ormai da tempo.

La crisi, poi, ha piegato i bilanci e la ‘mala gestio’ delle aziende di primo piano ha fatto il resto, allontanandole da quel rapporto di controllo che vi era inizialmente con le sub-aziende occulte.

Ciò ha potenziato il ruolo degli Ultras, a cui le stesse proprietà hanno delegato il dialogo con il resto del “mondo calcio”.

Ecco perché non può bastare un annuncio dagli altoparlanti dello stadio, una notizia ufficiale rilasciata da un’agenzia di stampa (oggi che dallo stadio si può accedere ad internet con qualsiasi telefonino!) per spiegare quanto accaduto nelle strade nei pressi dello Stadio Olimpico e per smorzare la tensione nata da un passaparola provocatorio, falso e pretestuoso: bisogna chiedere il consenso finale ai proprietari-ombra del calcio nostrano, con ossequio e garbo.

Allora meglio far calare il sipario su questo triste spettacolo? Non esiste una risposta esatta, ma solo ipotetiche soluzioni: leggi sicure con pene severe, ristrutturazione degli stadi, azionariato diffuso, tetto agli ingaggi e gestione dei diritti commerciali collettivi?

Forse, ma ciò che manca è la cultura dello sport, quella che latita sin dai primi approcci con questo mondo: per capirlo basta assistere ad una partita tra ragazzini di dieci anni e comprendere come sia impossibile imparare da chi, dagli spalti, non è in grado di dare qualche buon insegnamento ma solo cattivi esempi.

2 commenti:

  1. Il calcio in Italia ha perso il senso della misura, a causa del provincialismo del suo popolo

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