La riforma del lavoro è un argomento delicato su cui Renzi si gioca la sua credibilità e forse anche la tenuta del suo esecutivo.
Per ciò che riguarda il primo aspetto e cioè la credibilità bisogna sottolineare lo scetticismo che si respira intorno al Premier, che non sembra poter più contare sull’apporto degli sponsor che all’inizio dell’avventura sostenevano il suo operato: una parte non rilevante del suo partito tenta di disarcionarlo ed il feeling creato con l’Ncd e Berlusconi è più una necessità nel primo caso ed una tattica nel secondo.
Ciò determina un isolamento a cui Renzi risponde con propaganda e poca sostanza. In Italia la dietrologia è tanta e la pazienza è poca. Pertanto, è opportuno che alle parole faccia seguire presto i fatti, prima che questa di Renzi diventi la parentesi più dolorosa della sua carriera politica.
Il suo esecutivo rischia infatti di implodere sotto i colpi di sindacati e dell’opinione pubblica. Ma che cosa prevede il “Jobs Act” su cui il Governo sta lavorando? Il punto più critico riguarda il “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” e cioè la non applicazione dell'articolo 18 (normative in caso di licenziamento illegittimo) per i soli primi tre anni di assunzione (una sorta di apprendistato allargato a tutti) che poco piace ai sindacati ed ancora meno agli alleati di centro-destra (che vorrebbero invece vederlo totalmente abolito).
Su questo si concentrerà lo scontro, mentre nel resto del documento ci sono altri argomenti condivisibili e di grande tutela per i lavoratori, ma poco discussi: il governo vuole estendere a tutte le lavoratrici, indipendentemente dal contratto di lavoro, la tutela per la maternità (in Italia oggi una donna è di fatto impossibilitata ad avere un figlio fino a quando non conquista la qualifica di lavoratrice a “tempo indeterminato”), allineare gli ammortizzatori sociali a livello europeo con tutele uguali per tutti, istituire un'Agenzia nazionale per l'impiego razionalizzando gli enti e semplificando tutte le procedure e gli adempimenti in materia di lavoro.
Tuttavia, l’articolo 18 suscita comprensibilmente più interesse degli altri temi, riguardando un numero più esteso di lavoratori. Peraltro la questione della "flessibilità" del lavoro sembra mal posta. Infatti, l’anomalia italiana non risiede nella rigida applicazione del “reintegro”, visto che esso non è escluso in molti Paesi dell’UE (Austria, Germania e Olanda) e soprattutto perchè esso si applica sulla base di un principio sancito dalla Carta sociale europea (in cui si parla di risarcimento per ingiusto licenziamento attraverso “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”), condizionatamente al parere di un “giudice”.
Ciò che, invece, rappresenta il nodo e ci distingue dal resto d’Europa, secondo un’indagine dell’Ocse, è l’eccessiva burocrazia e la durata del procedimento in questione: due anni contro i pochi mesi necessari in Germania. E’ sulla certezza delle normative e sul rispetto degli iter e dei tempi che si deve lavorare per consentire ad aziende e lavoratori di trovare una soluzione condivisa.
Il “Jobs Act” sembra poter andare in questa direzione, se si guardassero a fondo tutti i temi trattati nel documento, ma per fare ciò è necessario che la discussione non si fermi al mero baluardo dell’articolo 18 (e agli indennizzi annessi), perché un pugno di ferro lungo e logorante non è di utilità ad alcuno, meno ad un Paese piegato dalla burocrazia in cui il lavoro, quello vero, continua pericolosamente a latitare.
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Sono d'accordo che il vero problema non è l'art. 18, ma la mancanza assoluta di lavoro per i giovani. E' questo il vero problema, il resto è un pretesto per un regolamento dei conti interni al PD
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