La pasta Garofalo allunga la lista delle aziende italiane cedute all’estero – venduto il 52% del capitale agli spagnoli di Ebro che meno di un anno fa avevano acquistato il 25% della Riso Scotti - e continua a segnare il lento declino del “Made in Italy”, non in termini di appeal ma di continuità aziendale.
Circa un anno fa scrivevo un post in cui parlavo della crisi del “Made in Italy”:
“L'industria italiana vive una delle fasi più buie della sua storia, ma parallelamente l'eccellenza della produzione (di nicchia) viene riconosciuta a livello internazionale. La 'triste' conseguenza di ciò è la cessione di marchi storici come quello di "Loro Piana" ai francesi di Lvmh nel campo della moda e recentemente "Pernigotti" ai turchi di Toksoz in ambito alimentare. Si potrebbero citare molte altre operazioni del genere effettuate nell'ultimo periodo come […] la cessione della pasticceria Cova sempre a Lvmh dopo un vero e proprio scippo alla famiglia Bertelli che fa capo al Gruppo Prada e le tante aziende vinicole toscane passate di mano a investitori americani e asiatici. Tutto ciò è conseguenza della crisi che il nostro Paese sta vivendo? E' vero solo in parte. Certamente la forte concorrenza in termini di costo del lavoro, il costante decremento dei consumi e la mancanza di sostegni finanziari atti a sopportare mesi e anni di bilanci in rosso hanno spinto molte aziende a vendere o a chiudere i battenti, ma questo discorso non dovrebbe riguardare alcuni dei ricchi marchi storici in questione.
Difficile credere che chi come "Loro Piana" sia capace di fatturare 700 milioni di euro l'anno (con un utile di oltre 140 milioni) non sia in grado di resistere alle lusinghe francesi. Non so se sia stata un'offerta economica irrinunciabile, ma se solo una parte dei due miliardi di euro pagati da Arnault alla famiglia piemontese fosse reinvestita nel nostro tessuto imprenditoriale allora forse la rinuncia sarebbe meno dolorosa. Rimane la delusione per un sistema in crisi, ma soprattutto per una cultura imprenditoriale ormai svanita da tempo. Manca, oltre alle risorse che forse lo Stato e il sistema finanziario non garantiscono adeguatamente, il coraggio di fare impresa, di dare lustro al "Made in Italy" e di ravvivare i marchi italiani, come il brand Diadora recentemente riacquistato in Cina da Polegato (Geox) in un percorso inverso, che mostra quanto siano diversi gli obiettivi e le passioni in tempo di crisi.”
Dopo un anno la situazione non è migliorata:
l’azienda italiana per eccellenza e cioè la Fiat è divisa tra unità operativa, legale e logistica in Italia, Olanda e Stati Uniti con progetti industriali poco chiari e con un futuro incerto soprattutto per marchi storici come Alfa e Ferrari.
Il comparto alimentare è ormai quasi interamente in mano estera con l’eccezione della Ferrero, della Barilla, dei produttori di bevande e di pochi tra pastifici e salumifici storici.
Se l’alta moda è ancora nei confini italici per pochi importanti marchi (su tutti Armani), rimane il comparto manifatturiero l’unico a capitale quasi esclusivamente italiano, pur avendo perso negli anni la sua caratteristica principale e cioè la presenza sul territorio: aziende come Calzedonia, Geox, Piquadro e Dainese rappresentano storie di successo che, però, sono riuscite a reggere l’urto della crisi e la concorrenza estera solo grazie alla delocalizzazione produttiva.
Tra le mani non ci rimane altro che la logistica e l’amministrazione: l’ultimo infruttifero baluardo dell’industria italiana.
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